L’Italia nel 2024 ha varato una riforma (62/2024) che fatica ad avere sviluppi coerenti. L’Obiettivo era e rimane accesso alle cure, progetti e tempi di vita, riconoscimento dei caregiver, inclusione lavorativa per le persone disabili. Le famiglie che hanno una persona con disabilità oggi devono ancora combattere contro criticità quotidiane.
Il primo monitoraggio concreto della riforma è rimandato al 2027 (rispetto al previsto 2026) poiché il percorso burocratico della costituzione delle Commissioni multidisciplinari di 7 tecnici ed esperti che devono ancora essere nominati dal Ministero è complesso. In ogni sede INPS si deve attivare un metodo di lavoro interdisciplinare per la presa in carico del sistema previsto dalla riforma che deve consentire di poter realizzare un progetto di vita ad oltre 8 milioni di persone ogni età non autosufficienti, con interventi sussidiari: per l’assistenza sociosanitaria è fondamentale la formazione degli operatori e la capacità di fare rete e programmare l’uso delle risorse, sempre molto scarse.
Il modello sociale è stato un potente strumento non soltanto di politicizzazione della disabilità, ma anche di “sfondamento culturale” e rimane per chi scrive, fondamentale per la crescita professionale il percorso sviluppato con il professor Andrea Canevaro proprio a Bologna, negli anni 80. In primo luogo, questo percorso ha messo profondamente in discussione gli approcci convenzionali utilizzati per studiare la disabilità. Prima della sua comparsa, le scienze sociali (e la sociologia fra queste) si erano occupate della disabilità facendo proprio il quadro interpretativo del modello medico.
La disabilità era considerata un deficit individuale, di natura biologica, per gestire il quale la società ricorreva alle istituzioni di welfare e in particolare ai servizi sociosanitari e riabilitativi. In buona sostanza, le scienze sociali si occupavano essenzialmente delle conseguenze sociali della disabilità senza però metterne in discussione i presupposti teorici. In secondo luogo, il modello sociale è stato l’«incubatore» dei disability studies che, a partire dagli anni Novanta, si sono diffusi in ambito accademico, soprattutto nel mondo anglosassone, ma anche – se pur più modestamente – in Italia.
Dunque, questa recente riforma italiana dovrebbe pragmaticamente attingere ai modelli anglosassoni molto virtuosi che hanno avuto negli anni ricadute ottime, per esempio, nei percorsi scolastici dove, purtroppo, segniamo ancora una assenza di personale specializzato. Queste Commissioni dovranno applicare una concezione relazionale della disabilità, intendendo con ciò una relazione tra fattori intrinseci (menomazione, personalità, motivazione, ecc.) e fattori estrinseci (ambienti, sistemi di supporto, oppressione, ecc.) In maniera più precisa, la disabilità da accertare e dunque da sostenere è il risultato dell’interazione tra fattori individuali e contestuali, l’intera interconnessione dei diversi fattori che compongono l’esperienza delle persone e dunque su questo costruire un progetto di vero sostegno.
E allora, facendo il punto sulle disposizioni, si scopre che sul Progetto di vita, il recente Decreto Ministeriale intitolato “Regolamento concernente le modalità, i tempi, i criteri e gli obblighi di comunicazione ai fini dell’autogestione del budget di progetto” del 14 gennaio 2025, n. 17, costituisce lo strumento normativo con il quale il Governo intende favorire l’autonomia gestionale delle risorse destinate al Progetto di Vita delle persone con disabilità. Tale decreto prevede che il “responsabile dell’autogestione” – ossia la persona con disabilità o il suo legale rappresentante – gestisca direttamente il budget di progetto, nel rispetto di stringenti obblighi di rendicontazione e tracciabilità, per garantire trasparenza e controllo nell’impiego delle risorse pubbliche.
Il modello normativo si confronta con le disposizioni del Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2025 e bilancio pluriennale per il triennio 2025–2027, che stabiliscono come l’attribuzione di ulteriori forme di autonomia alle Regioni sia subordinata alla definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) – la soglia minima di spesa necessaria a garantire prestazioni uniformi e di qualità su tutto il territorio nazionale – e il DM in esame collega la gestione del budget di progetto al sistema dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e dei LEP.
Ma la definizione operativa dei LEA e dei LEP, si basa su modelli deduttivi storici e priva di una mappatura dettagliata delle risorse economiche e strutturali disponibili a livello nazionale, con il rischio di determinare una distribuzione disomogenea dei fondi e standard qualitativi variabili da una Regione all’altra. L’Allegato A del DM, prevede cedolini di stipendio, ricevute bancarie, scontrini fiscali, fatture e bonifici e la rigidità delle definizioni e l’assenza di criteri operativi chiari possono generare interpretazioni divergenti, incertezza giuridica e potenziali controversie, con rischi per lo Stato, per le Pubbliche Amministrazioni e per i beneficiari, che potrebbero avere difficoltà nel dimostrare la conformità delle spese sostenute.
Come anticipavo all’inizio, l’allungamento della sperimentazione del sistema per l’elaborazione e l’attuazione del Progetto di Vita, modificato dalla Legge del 21 febbraio 2025, n. 15, che estende i termini sperimentali fissando l’entrata a regime del nuovo sistema al 1° gennaio 2027, provoca rallentamenti. Così come l’estensione finalizzata al perfezionamento progressivo del modello incide sull’accesso immediato alle misure complessivamente destinate alle persone con disabilità, generando incertezza nelle procedure e nelle tempistiche operative.
La sperimentazione avviata ipotizza una prevalenza del 5% di persone con disabilità nella popolazione residente; quindi, si stima un totale di circa 577.500 potenziali beneficiari. Considerando che la sperimentazione si rivolge a specifiche patologie, che interessano approssimativamente il 20% di questa platea, si ipotizza un coinvolgimento effettivo di circa 115.500 beneficiari. La realtà operativa – caratterizzata da disparità territoriali, strutture amministrative eterogenee e difficoltà nella definizione operativa dei LEA e dei LEP – evidenzia come le criticità strutturali possano tradursi in una distribuzione non uniforme dei fondi e in interpretazioni divergenti delle procedure di rendicontazione, e l’allungamento della sperimentazione fino al 1° gennaio 2027 ritarda l’attuazione pratica delle misure, aumentando l’incertezza per le Pubbliche Amministrazioni e per i beneficiari.