Il primo gennaio 1999 con l’assunzione da parte della Banca Centrale Europea (BCE) della piena responsabilità della politica monetaria dei paesi dell’aria Euro, fece commentare a molti osservatori delle questioni europee “fatta la moneta unica si farà lo Stato europeo…”. L’economista Claudio Sardoni nel suo saggio “L’Euro: Una Moneta Senza Stato – XXI SECOLO (2009) – spiega Il perché:
“La creazione dell’Unione Monetaria Europea (UME) non ha precedenti storici. Tutte le esperienze storiche di costruzione di un’area valutaria sono sostanzialmente diverse da quella europea (Eichengreen 2008). In alcuni casi sono state realizzate aree valutarie in cui non esisteva un’unica banca centrale; in altri casi la banca centrale unica è affiancata da un governo federale che esercita la sua autorità fiscale sull’intera area. In Europa esiste invece un’unica autorità monetaria e, quindi, un’unica politica monetaria, ma non esiste nulla di simile a una politica fiscale unica amministrata da un governo federale. In altre parole, con l’esperienza dell’euro è stato scisso il legame storicamente sempre esistente fra moneta e autorità statale, che esercita la propria sovranità tramite il fisco e la moneta”.
Occorre ricordare che l’adozione di una valuta unica da parte di un gruppo di Paesi implica necessariamente la rinuncia da parte di ciascuno di essi alla possibilità di condurre politiche monetarie autonome.
Questa questione della unicità dell’esperienza europea è costantemente presente quando si parla della Governance dell’UE (cosa già vista nel precedente mio articolo del 7 gennaio 2025: ”Unione Europea: un sistema di gestione vago e confuso“, su questa stessa testata. Ma affronteremo questo argomento più tardi.
Il Consiglio europeo straordinario del 6 marzo 2025
Giovedì 6 marzo 2025 il Consiglio europeo straordinario ha approvato il programma ReArm Europe il cui finanziamento (fino 800 miliardi) deve ancora essere definito in dettaglio.
Ecco un passo del documento sulla difesa europea: “…..In tale contesto, l’Unione europea accelererà la mobilitazione degli strumenti e dei finanziamenti necessari al fine di rafforzare la sicurezza dell’Unione europea e la protezione dei nostri cittadini. In questo modo, l’Unione potenzierà la sua prontezza complessiva alla difesa, ridurrà le sue dipendenze strategiche, affronterà le sue carenze in termini di capacità critiche e rafforzerà la base industriale e tecnologica di difesa europea, di conseguenza, in tutta l’Unione affinché sia in grado di assicurare una migliore fornitura di attrezzature nelle quantità e al ritmo accelerato necessari. Ciò contribuirà altresì a dare una spinta alla competitività industriale e tecnologica europea…”.
Questo passo chiarisce che il programma ReArm Europe serve per incrementare la difesa dei paesi membri – da non confondere con la Difesa Comune europea. A questo proposito le parole le di Sabino Cassese nel suo articolo: “L’Europa si difenda “, Corriere della Sera – 13 marzo 2025 – non lasciano più dubbi :
“L’Unione europea sta correndo ai ripari, ma nel farlo incorre negli stessi errori del passato. Ha avviato un piano di difesa, ma per aiutare gli Stati ad aumentare rapidamente e significativamente le spese in questo settore (sono le parole della presidente della Commissione europea). L’ha fatto facendo ridiventare protagonisti gli Stati, con cinque strumenti: dare uno «spazio fiscale» agli Stati nel Patto di stabilità e di crescita, consentendo loro di indebitarsi per la difesa; prevedere prestiti dell’Unione agli Stati per investimenti per la difesa; consentire agli Stati di trarre risorse dai fondi per la coesione; mobilizzare capitale privato, attraverso l’Unione del risparmio e degli investimenti e la Banca europea degli investimenti. Quindi, distribuendo risorse per fare più forti le difese nazionali, non per ottenere una difesa unica”.
Coalition of the willing
Iniziativa diversa è la “coalition of the willing”, coalizione dei volenterosi che si è espressa a Parigi con l’invito di Macron e a Londra con l’invito di Starmer.
A cinque giorni dall’accordo dei 27 sul piano da 800 miliardi per rafforzare la difesa dell’UE, martedì11 marzo i vertici delle forze armate di più di 30 paesi dell’UE e della NATO, tranne gli Stati Uniti, si sono riuniti, presso l’Accademia di difesa dell’Ecole Militaire di Parigi, per discutere dell’eventuale invio di truppe di peacekeeping in Ucraina in caso di accordo sul cassate il fuoco e valutare la creazione di una forza militare internazionale volta ad evitare possibili aggressioni future della Russia.
È evidente che c’è una forte mobilitazione di paesi membri dell’UE e paesi membri della Nato che cercano l’unità su sicurezza e difesa per l’Ucraina e per la stessa l’Europa.
Il Consiglio europeo straordinario ha fatto il minimo indispensabile data la situazione che si è venuta a creare con l’elezione di Trump e le sue conseguenze sull’Ucraina e sull’UE.
“E’ sul terreno ucraino che, in primo luogo, si misureranno la determinazione degli europei e la loro capacità di coordinamento reciproco al fine di difendere l’Europa dalla volontà di potenza dei russi. È in Ucraina che si porranno le basi della futura, se mai ci sarà, difesa collettiva europea” (Angelo Panebianco nel suo articolo: “Il mondo è cambiato“, 11 marzo, Corriere della Sera).
Una Unione europea al bivio
Fin dalla istituzione della Comunità Economica Europea, nel 1957, si pensò che bastasse unire I mercati ed in parte l’economia, per portare progresso e pace. L’apice di questa visione lo si ebbe col “Libro Bianco” di Jaques Delors sul completamento del mercato interno, varato a Milano nel 1985.
Questa visione ha effettivamente garantito progresso e pace per più di 70 anni, facendo sedere l’UE sugli allori ma nascondendo le sconfitte che ci sono state in questo periodo: un esempio per tutti è rappresentato dal fallimento della Comunità europea di difesa (CED): un progetto di collaborazione militare tra gli Stati europei proposto e sostenuto, nei primi anni cinquanta, dalla Francia – e precisamente dal Primo ministro René Pleven con la collaborazione dell’Italia di Alcide De Gasperi. Il progetto fallì per l’opposizione politica proprio della Francia, dovuta a un suo successivo ripensamento.
In sintesi, l’UE deve fare fronte a due aspetti essenziali:
- La visione stabilita dall’inizio della nascita dell’UE necessita di un potere politico per portare avanti tutte le integrazioni in programma. ll Rapporto di Mario Draghi sulla “Competitività dell’UE “ e il Rapporto di Enrico Letta sul “Mercato Unico” arrivano, in sintesi, alle stesse conclusioni.
- Gli imperialismi del ventunesimo secolo di Trump, Xi e Putin costringono l’UE a fare i conti urgentemente con il “POTERE”: quindi, sicurezza e Difesa Comune europea, un qualcosa che la visione iniziale dell’UE non aveva previsto, lasciando ai trattati internazionali l’incarico di risolvere eventuali questioni territoriali che sarebbero potute nascere.
Non è più tempo di indugiare, l’UE è obbligata a fare i conti con la sua storia per poter andare avanti scrivendo un nuovo libro. Con ciò intendo dire che l’UE deve risolvere due problemi:
- La unicità del suo modello istituzionale, orgogliosamente rivendicata all’inizio, oggi un ostacolo ai sistemi istituzionali più efficaci ed efficienti. L’UE dovrebbe analizzare modelli già esistenti che hanno dato la loro prova nella storia.
- La sua Governance duplice: il sistema della presa di decisioni nell’UE cambia a secondo che si tratti della Commissione (metodo comunitario) o del Consiglio europeo (metodo intergovernativo).
Gli europeisti messi alla prova
Alcuni europeisti si affannano ad immaginare soluzioni, fino a sognare non solo un’Europa a due velocità ma una quantità di Europe diverse che si formano su singoli temi che potranno vedere l’alleanza di un certo numero di paesi membri dell’UE.
L’innamoramento per la “cooperazione rafforzata” (articolo 20 del trattato sull’Unione europea e titolo III del trattato sul funzionamento dell’Unione europea), principio che attribuisce agli Stati membri, che intendano perseguire determinate politiche comuni, di procedere anche in assenza di una volontà comune. In mancanza di unanimità in seno al Consiglio Europeo, nove o più Stati membri possono comunque cooperare sulla base di una cooperazione rafforzata.
Questo è il caso di dire: “quando la cura è peggio della malattia “. Se questo principio venisse applicato all’estremo, avremmo un’UE frantumata in mille rivoli cosa che ha sempre desiderato l’estrema destra europea. A questi europeisti dobbiamo dire: “State attenti a quello che desiderate, perché potreste ottenerlo”.
Gli “Stati Uniti d’Europa” rischiano di essere uno slogan privo di contenuti; la stessa parola “europeisti” è una parola senza senso: non basta chiedere maggiore integrazione, oppure dichiarare che gli Stati membri dovrebbero devolvere competenze all’UE, oppure chiedere una riforma dei Trattati europei per essere considerato europeista. Tutte dichiarazioni di principio che restano tali, senza spiegare il processo che bisogna seguire per ottenere la realizzazione di questi principi.
Gli europeisti potrebbero facilmente trovare un accordo, analizzando il sistema istituzionale e la duplice Governance, prendendo la decisione di cambiare finalmente regime, cosa che finora non è stata fatta.
A proposito della riforma dei Trattati europei
Se ricordo bene, Ursula von der Leyen, durante la presentazione del suo programma davanti al Parlamento europeo prima di essere eletta per il suo secondo mandato, disse due No perentori: no alla riforma dei Trattati e no al debito comune.
Il “no” al debito comune è teso a rimuovere lo strumento di Next Generation EU che fu qualcosa di positivo dopo la crisi del Covid.
L’ultimo Trattato è quello di Lisbona fu firmato dal Consiglio europeo il 13 dicembre 2007 a Lisbona, per essere ratificato dopo dagli tutti gli Stati membri, ormai 20 anni fa, tempo esorbitante visto l’intervallo che ci è stato fra i trattati precedenti.
Il trattato di Lisbona ha avuto inizio come progetto costituzionale alla fine del 2001 (dichiarazione del Consiglio europeo sul futuro dell’Unione europea) ed è stato portato avanti nel 2002 e nel 2003 dalla Convenzione europea che ha elaborato il trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (trattato costituzionale). Il processo che ha portato al trattato di Lisbona è stato la conseguenza dell’esito negativo di due referendum sul trattato costituzionale, tenutisi nel maggio e nel giugno del 2005, in seguito ai quali il Consiglio europeo ha optato per un “periodo di riflessione” di due anni. Infine, sulla base della dichiarazione di Berlino del marzo 2007, il Consiglio europeo, riunito dal 21 al 23 giugno 2007, ha adottato un mandato dettagliato per una successiva Conferenza intergovernativa (CIG), sotto la presidenza portoghese. La CIG ha concluso i lavori nell’ottobre 2007. Il trattato è stato firmato dal Consiglio europeo il 13 dicembre 2007 a Lisbona ed è stato ratificato da tutti gli Stati membri.
Conoscendo il contesto in cui è nato il Trattato di Lisbona, comprendo (ma non accetto!) i timori espressi da Ursula von der Leyen nei confronti di una modifica ulteriore dei Trattati europei. La sensazione che ha lasciato von der Leyen è che sarebbe difficile andare oltre il Trattato di Lisbona, come dire che la Unione europea ha raggiunto il suo limite.
L’UE ha raggiunto il limite delle sua spinta propulsiva
Dal Trattato di Parigi (1951) la Comunità europea – poi diventata l’Unione europea – ha garantito 74 anni di progresso, avendo stabilito un modello istituzionale unico al mondo e un duplice sistema di decisioni.
È difficile pensare che, dopo il fallimento della Comunità europea di difesa (CED), l’UE riesca a fare meglio sulla Difesa Comune se non cambia totalmente approccio.
Con l’attuale regime, l’UE ha raggiunto il limite della sua spinta propulsiva, anche dal punto di vista dell’integrazione degli Stati membri. Non è un segreto per nessuno che in 74 anni di storia dell’UE gli stati nazionali hanno conquistato sempre maggiore potere. Da quando il Consiglio europeo è stato riconosciuto formalmente (2009) è diventato più complicato proseguire sulla via dell’integrazione per le divergenze degli interessi nazionali.
Risulta più difficile ancora pensare che l’UE abbia la facoltà di uscire vincente dalle sfide che la geopolitica la costringe ad affrontare, a meno di effettuare una svolta epocale, sul piano del suo modello istituzionale e sul piano di sua governance.
Nel suo ultimo intervento di fronte al Parlamento europeo, Mario Draghi ha esortato i paesi membri di agire uniti come fossero uno STATO unico. Non è la prima volta che Mario Draghi fa riferimento ad uno Stato sovranazionale.
Uno Stato sovranazionale è la svolta epocale necessaria
Auspicando che l’esito della questione Ucraina sia accettabile per il popolo ucraino, innanzitutto, anche per l’UE si apre un libro nuovo tutto da scrivere. A parte la questione Ucraina, occorre ricordare che Montenegro, Albania, Bosnia-Erzegovina, Macedonia del Nord, Moldova e Ucraina (6 paesi su dieci) sono sulla strada dell’adesione. È impensabile che l’UE possa affrontare un altro allargamento con il regime attuale.
La questione prioritaria dell’Ucraina e la mobilitazione della coalizione dei volenterosi hanno già dimostrato che esiste un’Europa diversa, i fatti anticipano le analisi e le successive decisioni politiche. Se aggiungiamo l’allargamento futuro, l’UE avrà bisogno di analisi attente, elaborazione di una nuova visione e di scelte politiche a medio termine, per cui – a distanza di tanti anni dal Manifesto di Ventotene – i Paesi membri dell’UE avranno una seconda opportunità.
Uno Stato sovranazionale la cui democraticità è garantita da un regime parlamentare: non vi è Stato Sovranazionale senza un Regime Parlamentare vero e proprio. Per l’UE, non vi è Difesa Comune senza diventare uno Stato Sovranazionale.
“Non ci può essere Difesa Comune senza uno Stato Sovranazionale”: potrebbe essere un secondo saggio dell’economista Claudio Sardoni che nel 2009 scrisse “Una Moneta Senza Stato “.