Anche quest’anno l’anniversario del 25 Aprile scatena polemiche e dimostra che 80 anni non sono stati sufficienti per una vera riconciliazione nazionale. L’ultima polemica ha riguardato la doppia emissione filatelica dedicata a due donne: Rodano, partigiana comunista, e Grill, giovane volontaria della Repubblica Sociale, uccisa a Torino nell’Aprile del 1945.
Ancora una volta il revisionismo filatelico degli eredi del MSI prova a celebrare eroi o avvenimenti legati al fascismo mettendo in risalto aspetti apparentemente incontestabili. E non è la prima volta. Il primo è stato l’annullo filatelico del 2005 dedicato a Italo Balbo (il quadrunviro della marcia su Roma): uno degli squadristi più violenti oltre che trasvolatore oceanico. L’anno scorso un altro francobollo è stato dedicato a Foschi, fondatore dell’AS Roma (la squadra di calcio), ma anche capo squadrista romano nel 1924, all’epoca del delitto Matteotti. Se celebriamo Matteotti, non possiamo dimenticarci di Foschi… Quest’anno un altro francobollo è stato dedicato al bombardamento di Zara da parte degli angloamericani. Secondo la versione fascista, il bombardamento fu effettuato su indicazione di Tito per costringere gli italiani ad abbandonare Zara, che, come città, non aveva peraltro alcuna rilevanza strategica.
Il tentativo di riscrittura della storia da parte degli eredi del neofascismo potrebbe essere classificato come risibile, ma in realtà non deve essere sottovalutato e deve farci riflettere sul rischio che, poco alla volta, i carnefici possano passare per martiri e chi ha combattuto per la libertà possa passare per un carnefice. Una storiografia poco conosciuta può aiutarci a capire cosa è stato il periodo del dopoguerra che arriva fino al 1948. Sicuramente non conosciuta come il libro di Pansa “il sangue dei vinti” che, descrivendo le uccisioni senza processo di aderenti alla RSI, ha dipinto la Resistenza quasi come un movimento di violenti guidati dai comunisti.
Alcuni numeri possono aiutarci. Il conteggio preciso dei fascisti uccisi o scomparsi dopo la fine della guerra non esiste. Le stime parlano di circa 10.000 persone uccise per la maggior parte nel 1945, ma con ulteriori episodi anche nei tre anni successivi. I fascisti condannati per reati di collaborazionismo, torture ed uccisioni in regolari processi furono circa 5.800. Di questi circa 300 furono condannati a morte e 5.500 a pene detentive. E’, però, interessante analizzare come furono eseguite le sentenze: dei 300 condannati a morte solo 91 sono stati fucilati e la successiva amnistia di Togliatti – ed interpretazioni più benevole della Cassazione – hanno consentito ai condannati di uscire dal carcere entro pochi anni. Nel 1955 non c’era più nessun fascista condannato all’ergastolo che scontava la pena in prigione. L’esempio più famoso è stato il generale Graziani che, uscito dal carcere nel 1953, divenne presidente del MSI nel 1955 (ed al quale il nostro Ministro dell’agricoltura Lollobrigida ha fatto dedicare un giardino pubblico nella città di origine).
Graziani rappresenta anche un altro esempio della mancata volontà di perseguire i crimini fascisti. Mi riferisco ai circa 800 italiani che erano stati accusati di stragi e torture effettuati nei Paesi occupati ed ex Colonie. Nonostante nel trattato di pace firmato da De Gasperi nel 1947 fosse espressamente previsto che l’Italia si impegnava a consegnare i criminali di guerra ai paesi che ne avessero fatto richiesta (Libia, Somalia, Etiopia, Jugoslavia, Grecia e Russia) per sottoporli a giudizio, neanche uno fu consegnato. Naturalmente anche Graziani era tra questi.
Diverso fu il trattamento riservato ai partigiani che, in dissenso con l’amnistia di Togliatti e convinti che era necessario proseguire l’epurazione con metodi violenti, commisero omicidi dopo il 1945. Molti furono condannati all’ergastolo ed a lunghe pene detentive escludendo la motivazione politica nelle azioni commesse. In pratica equiparati a semplici criminali. Molti riuscirono a fuggire in Cecoslovacchia, grazie al PCI, e alcuni torneranno solo agli inizi degli anni 80 in forza della grazia concessa da Pertini, allora Presidente della Repubblica, ad alcuni di loro.
Siamo, quindi, di fronte a due estremi nell’approcciare in Italia l’epurazione del regime fascista e la condanna degli autori di reati particolarmente efferati: da una parte l’uccisione senza processo di fascisti nel 1945, dall’altra le irrisorie pene comminate successivamente dai tribunali a chi aveva torturato ed ucciso.
Su questo sarebbe anche interessante analizzare il comportamento dei giudici che erano stati tutti selezionati e formati sotto il regime fascista. Immaginare che un giudice che aveva giurato fedeltà al regime fino al 25 luglio del 1943 potesse spingere un interruttore il 25 Aprile del 1945 per trasformarsi in un “democratico” è alquanto ipocrita. Sicuramente questa fu la valutazione che fece il CLNAI quando condannò a morte Mussolini e fece eseguire la sentenza senza un processo. Se ci fosse stato, probabilmente Mussolini sarebbe morto nel suo letto qualche decennio dopo.
Ed è questo il nodo che non è mai stato sciolto in Italia nel dopoguerra e che, a distanza di 80 anni, fa capire che la riconciliazione non c’è stata e, forse, mai ci sarà. Semplicemente, se fosse stata fatta realmente giustizia nei tribunali ed i condannati avessero scontato le pene che erano state inflitte, allora il Paese poteva chiudere quella pagina. Questo per due principii che sono alla base della civiltà giuridica moderna: la responsabilità penale è personale e la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Invece le amnistie hanno scaricato di fatto la responsabilità su avvenimenti più grandi dei singoli. Quindi, non c’è stato neanche bisogno del pentimento di chi aveva commesso reati atroci, per uscire di prigione dopo pochi anni ed addirittura ottenere la piena riabilitazione.
Proviamo per un attimo ad immaginarci cosa possono avere provato parenti ed amici di chi fu ucciso dai nazifascisti quando incontravano liberi per strada, solo dopo pochi anni, gli autori di questi delitti. Su questo argomento è molto interessante rivedere il film di Florestano Vancini, “La lunga notte del 43”. E’ difficile capire perché, mentre la destra riscopre e celebra i suoi martiri (o presunti tali) citando episodi storicamente accaduti, la sinistra tende a dimenticare avvenimenti ed analisi storiche ben più importanti e che supporterebbero molto bene la riaffermazione di valori che diamo per scontati ma che scontati non sono.
Contrastare il revisionismo storico che utilizza singoli episodi per stravolgere la storia delle origini della nostra democrazia, richiede non solo le commemorazioni ufficiali del 25 aprile, ma anche la capacità di raccontare i tanti episodi della Resistenza che un poco alla volta rischiamo di dimenticare.