È scritto nel Libro della Genesi che gli uomini parlavano la stessa lingua e per evitare di essere dispersi nel mondo pensarono di costruire un edificio tanto elevato da sfiorare il cielo, dove avrebbero potuto restare uniti. Ma Dio creò scompiglio nelle genti e, facendo in modo che le persone parlassero lingue diverse e non si capissero più, impedì che la costruzione della torre venisse portata a termine.
Sabato 15 marzo piazza del Popolo ha cambiato nome. Adesso si chiama Piazza Michele Serra, a perenne ricordo dell’iniziativa promossa dal Giornalista di Repubblica, che ha trasformato quella giornata in data coincidente con le Idi di marzo, in un rosario di massa in nome di un’Europa eletta come una Gerusalemme celeste, consacrata al dogma della pace universale.
L’iniziativa aveva qualche sentore di equivocità, nel senso che era stato consentito a tante organizzazioni ed a singole personalità di aderire con proprie motivazioni, spesso contrapposte a quelle di altri. Tanto più che, dal momento in cui Michele Serra aveva concepito l’iniziativa fino al giorno fatidico del suo svolgimento, la realtà si era incaricata di mettere in fila una serie di problemi che non trovavano risposta nella astrattezza e nella genericità delle motivazioni poste dal suo promotore alla base della mobilitazione. Così, ciascuno si era sentito autorizzato a manifestare per proprio conto, al fine di fornire una interpretazione autentica degli obiettivi dell’iniziativa corrispondente a una sua particolare visione dei processi in corso; ovvero una classica Babele delle lingue che rendeva inconciliabili gli obiettivi degli uni con quelli degli altri.
Il dibattito e il voto nel Parlamento di Strasburgo, come espresso dalle forze politiche maggiormente impegnate nella manifestazione del 15 marzo, non si erano limitati a consolidare posizioni differenti, ma hanno finito per certificare il prevalere di una linea politica (in particolare sul ReArme Eu) che, in nome di un’Europa immaginaria, ha voluto dissociarsi dall’Europa reale, perché guerrafondaia.
Gli equivoci nei discorsi e nelle interviste dei vari esponenti nella Piazza hanno messo in evidenza le ambiguità delle principali forze di opposizione sulla crisi Ucraina. Ma anche quelle della coalizione di maggioranza non si sentono troppo bene. A tirare le somme, possiamo concludere che un’iniziativa a sostegno dell’Europa minacciata da Trump si è meglio caratterizzata come una critica alle istituzioni europee che cercano di costruire una prospettiva diversa da quella preconizzata dalla nuova Amministrazione americana. Insomma, una recita a soggetto si è trasformata in una inutile pagliacciata. E in una testimonianza che da noi è sempre l’8 settembre anche se il calendario segna il 15 marzo.
Si fa sempre più strada nell’opinione pubblica l’idea di una pace purchessia. In certi ambienti se qualcuno si azzarda ad aggiungere al sostantivo ”pace”, l’aggettivo ”giusta”, viene considerato un nemico della pace perchè tutti sono consapevoli che, oggi, è possibile solo una resa dell’Ucraina alle condizioni di Putin, a cui Trump ha già riconosciuto la validità degli argomenti che hanno indotto il Cremlino ad aggredire il paese confinante.
C’è in giro una grande voglia di tornare alla sicurezza del Patto di Yalta (cuius regio eius religio) e di riconoscere alla Russia quella zona di influenza che l’Urss aveva ottenuto dopo la Seconda guerra mondiale e che ha dilapidato da sola dopo il 1989. Ma qualcuno è sicuro che sia giusto condannare milioni di cittadini europei dell’Est a vivere in paesi costretti a ri-divenire satelliti del rinato Impero del Male, al solo scopo di consentire a quelli che occupano la metà occidentale del Vecchio Continente di stare tranquilli e di tornare a fare affari con la Russia allo scopo di pagare bollette più economiche per le forniture di energia?