Nella società contemporanea, la vita delle persone si svolge in egual misura in presenza e in rete.
Off-line e on-line, nel Mondo e nell’Oltremondo, utilizzando la suadente terminologia di Alessandro Baricco, che distingue così la vita reale da quella sulla rete, virtuale. Nel saggio “The game” (2019), Baricco ci spiega che: “la personalità delle persone, l’autentica personalità delle persone, diventa il risultato di una somma di presenze, nel Mondo e nell’Oltremondo, che reagiscono insieme come sostanze chimiche e forniscono una specie di ultima identità cangiante e mobile”.
In un mondo iper-connesso, online e offline diventano realtà difficili da separare, al punto che la dottrina ha coniato un apposito termine per indicare l’ibridazione costante tra la vita reale e quella virtuale, che prende oggi il nome di on-life [Floridi].
La compenetrazione totale tra queste due sfere rende necessario dotare Internet di regole adeguate al fine di evitare che i diritti individuali delle persone che vivono nel Mondo, nella dimensione analogica, possano essere danneggiati e calpestati attraverso le attività realizzate nell’Oltremondo, nella dimensione digitale. Da questo punto di vista, quindi, appare semplice e al tempo stesso centrale la regola, sancita nel Digital Services Act, secondo cui ciò che è illecito offline deve essere considerato illecito anche online (consid. 12).
Fra i “rischi sistemici” cui sono esposti i diritti personali nel XXI secolo, un ruolo rilevantissimo ha la disinformazione, che sempre più rappresenta una minaccia per il rispetto della libertà di espressione del pensiero e il pluralismo delle idee. Questo fenomeno vede la massima diffusione e pericolosità attraverso le attività realizzate in rete, nelle diverse forme di comunicazione digitale che vi si svolgono. Attraverso la diffusione incontrollata di informazioni false o manipolate si rischia che Internet, da strumento di informazione, si tramuti in veicolo e moltiplicatore di disinformazione, producendo ricadute molto pericolose nel mondo reale. Si pensi, tanto per fare un esempio, alla sparatoria nella pizzeria “Comet Ping Pong” di Washington la notte del 4 dicembre 2016, ad opera di un ragazzo di 28 anni convinto da informazioni diffuse su siti web che vi si nascondesse un centro di sfruttamento della prostituzione minorile gestito da Hillary Clinton, allora candidata alla Presidenza degli Stati Uniti. Per arginare forme di disinformazione attraverso la rete che possono contribuire ad aggravare situazioni critiche e a minacciare l’ordine pubblico, l’ordinamento è ricorso talora a misure d’urgenza: la crisi pandemica del 2020, presso il Dipartimento per la stampa e l’editoria venne creata una «Unità di monitoraggio per il contrasto della diffusione di fake news relative al Covid-19 sul web e sui social network» (Decreto 3 aprile 2020).
In generale, la disinformazione, la manipolazione delle informazioni e le ingerenze da parte di attori stranieri nei processi informativi costituiscono una grave minaccia per la società. Il fenomeno della disinformazione online è strettamente legato al tema della “disintermediazione” in rete, ossia la possibilità offerta agli utenti Internet di accedere rapidamente, con pochi passaggi e senza costi specifici, a fonti di informazione online, non sempre verificate e qualificate, e successivamente di condividerne i contenuti.
A dispetto della sua pericolosità, la diffusione o condivisione di notizie false non integra in sé un comportamento giuridicamente illecito, soprattutto penalmente, a fronte di un diritto costituzionale di espressione del pensiero che non consente distinzioni basate sui contenuti. Ai sensi dell’art. 21 Cost., e dell’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, infatti, si ha diritto di manifestare il proprio pensiero indipendentemente dal fatto che esso corrisponda o meno alla verità dei fatti.
Il punto è che i contenuti falsi (fatti e opinioni), generalmente qualificabili come disinformazione sulla base delle definizioni attualmente impiegate, sono protetti dalla libertà di espressione al pari dei contenuti attendibili.
Alcuni Stati, come la Francia, la Germania, la Grecia hanno rivendicato il ruolo dei Parlamenti approvando leggi dirette a contrastare le false informazioni e la manipolazione delle notizie, suscitando però il timore che seguendo questa via si introduca una forma di censura (il bavaglio alla rete). Sul fronte opposto, l’ordinamento nordamericano rivela un’idea quasi sacrale della libertà di espressione, al punto da vietare al legislatore qualsiasi interferenza con la free speech clause (Primo emendamento), nella convinzione che il cd. free markeplace of ideas, se lasciato libero di porre a confronto opinioni diverse, in modo trasparente, sia in grado di selezionare idee e le ideologie in base alla loro superiorità e al loro grado di accettazione da parte della popolazione, facendo emergere quelle vere su quelle false. Una teoria che risale alla famosa dissenting opinion espressa nel caso Abram vs. United States (1919) dal giudice costituzionale Oliver Wendell Holmes, il quale, nel nome di una visione pluralistica dell’informazione e delle opinioni, si oppose a qualsiasi interferenza di matrice pubblicistica rispetto alla libertà di espressione degli individui. L’idea di fondo è che la moneta buona sia capace di scacciare quella cattiva, e che il rischio della falsità rappresenti una contropartita accettabile del pluralismo.
Tutti i social media e, più in generale, tutta l’informazione online, si mostra particolarmente sensibile alla retorica del libero mercato delle idee. Attualmente, i principali social network americani stanno orientandosi con decisione a favore del free marketplace of ideas, anche su pressione del nuovo governo Trump, da sempre ostile a ogni forma di “censura” in rete. Sicuramente lo sta facendo da tempo Space X, guidata dall’esponente più noto di una libertà di pensiero estremizzata, assoluta, senza limitazioni; ma anche Meta, già Facebook, ha annunciato in questi giorni la dismissione di ogni strumento di fact checking, mostrando di voler lasciare spazio alla libera espressione delle idee, comprese quelle false.
A differenza degli Stati Uniti, che da sempre attuano una politica di accentuata deregulation nei confronti del web e dello sviluppo tecnologico in genere, l’Unione europea si contraddistingue per l’attivismo nell’adozione di regole e principi giuridici volti a realizzare uno spazio europeo digitale ispirato a valori democratici e condivisi da tutti i paesi membri. Il Digital Services Act, approvato dalla UE nel 2022, ha previsto una sostanziale delega agli intermediari online per moderare i contenuti diffusi tramite i servizi da essi messi a disposizione degli utenti. In relazione alla disinformazione online è già adottato un Codice di condotta “rafforzato” da parte di alcuni grandi players della rete (Very Large Online Platforms e Very Large Online Search Engines), visto che quello del 2018, dopo i primi anni di operatività, non aveva portato a risultati pienamente soddisfacenti nel contrasto alla disinformazione online. Il 16 giugno 2022 è stato pubblicato il “Codice rafforzato di buone pratiche sulla disinformazione”, firmato da 34 soggetti tra piattaforme, imprese tecnologiche ed esponenti della società civile, che dà seguito agli Orientamenti della Commissione del 2021, tenendo conto degli insegnamenti tratti dalla crisi legata al COVID-19 e dalla guerra di aggressione della Russia in Ucraina. Si tratta di una scelta condivisibile: il percorso più idoneo per contrastare il fenomeno delle false informazioni diffuse attraverso la rete passa attraverso la responsabilizzazione delle piattaforme online, dei social network e dei motori di ricerca, che devono autonomamente approvare delle linee guida, o dotarsi di codici deontologici per educare gli utenti all’utilizzo consapevole della rete e favorire la trasparenza, il pluralismo e il rispetto dei valori civili che rendono possibile la convivenza sociale.
Tuttavia, l’attività di enforcement privato, su cui sembra puntare in via esclusiva il DSA, non è, di per sé, una garanzia per il pluralismo e la libertà di espressione del pensiero. Il DSA è stato criticato da molti opinionisti ed esperti proprio per la sua tendenza a consegnare nelle mani delle grandi piattaforme digitali un potere di selezione dei contenuti, esercitando una sorta di “censura privata” sulle idee postate attraverso i servizi erogati dai grandi intermediari.
Oltre all’attività di selezione, occorre riportare un po’ di “intermediazione” culturale in un ambiente che è sempre più disintermediato, e per questo esposto ai rischi di fake news e bufale, che condizionano la libertà di opinione dei cittadini e degli elettori. Occorre introdurre anche modalità preventive di contrasto alla disinformazione, incentrate sulla valutazione ex ante dei contenuti prima che vengano immessi in rete, oltre che modalità successive di fact checking. Non mi riferisco ovviamente a forme di autorizzazione preventiva, che richiamerebbero da vicino strumenti censori banditi dalla nostra Costituzione, bensì alla reintroduzione della intermediazione professionale che, attualmente, è assente per molte informazioni veicolate da Internet e, come si è detto, è all’origine del problema stesso della disinformazione.
L’informazione realizzata attraverso i siti informativi non riconducibili alla nozione di testata online è quasi sempre disintermediata: si pensi ad es. alle pagine/siti web che pubblicano con modalità atipiche informazioni (cd. post) distribuite indiscriminatamente agli utenti di Internet, tramite collegamento diretto a tali siti o mediante l’accesso agevolato da portali e motori di ricerca specializzati; alle pagine personali su Internet, ai forum, ai blog, newsletter, newsgroup, mailing list, ad alcuni social network. Questi siti non possono qualificarsi come periodici di informazione professionale, in base ai criteri sostanziali e finalistici elaborati dalla Cassazione, poiché non hanno carattere di professionalità, sistematicità, non offrono informazioni verificate e chiunque può inserirvi contenuti: pertanto, come spiega la Cassazione, «non sono soggetti alle tutele e agli obblighi previsti dalla normativa sulla stampa» (Cass. pen., SS.UU., 29 gennaio 2015, n. 31022).
Si tratta di problemi molto complessi, che richiedono approcci diversificati, multimensionali, e non limitati alla sola regolazione. Mi sento però di affermare che, nel contrasto alla disintermediazione, per una volta il nostro paese parte in vantaggio. A fronte del nesso di causalità che collega disintermediazione e disinformazione online, si potrebbe riscoprire una ragione d’essere all’ Ordine dei giornalisti nazionale, da sempre oggetto di vivace dibattito in dottrina e presso l’opinione pubblica. Ad esempio, rendendo necessaria l’intermediazione di un giornalista per i contenuti informativi pubblicati dai siti online di maggiori dimensioni, stabilendo una soglia standard di visualizzazioni o un fatturato minimo al di sopra dei quali il titolare/responsabile del sito deve essere iscritto all’Ordine dei giornalisti.
Visto che siamo l’unico paese al mondo ad avere un Ordine dei giornalisti, un collegio chiuso costruito intorno ad una professione «che ha per oggetto esclusivo l’esercizio di una libertà costituzionale», tanto vale metterlo a servizio dell’interesse pubblico. E cercare di trarre tutti i vantaggi possibili da questa anomalia italiana.