L’attacco che la mafia ha portato allo stato italiano all’inizio degli anni 90 ha visto reagire le istituzioni con una determinazione ed una efficacia che non si erano mai viste in precedenza. Le stragi di Capaci e di via Amelio mostrarono un’arroganza da parte del potere mafioso mai evidenziata prima. La solitudine di chi aveva combattuto la mafia a costo della vita (vedi gli omicidi di Mattarella, Pio La Torre, Dalla Chiesa) era la prova evidente che la mafia poteva contare su una rete di complici, fiancheggiatori o collusioni che costituivano una parte importante del suo potere.
E questo potere poteva reggersi principalmente grazie alla gestione delle risorse finanziarie derivanti da traffici criminali. Gestire queste risorse e renderle utilizzabili ha sempre richiesto alla mafia due attività.
La prima è di avere prestanomi, società compiacenti ed attività economiche di copertura.
La seconda è una costante attenzione da parte dei capi su come gestirle, anche quando questi stanno scontando lunghe pene detentive.
Proprio per scardinare questi due aspetti all’inizio degli anni Novanta sono state messe a punto alcune leggi che rispondevano alla situazione di emergenza che si era creata. La legge sui sequestri dei beni dei mafiosi (Legge La Torre) e la disciplina della carcerazione conosciuta come 41bis. Inoltre, la pena dell’ergastolo è stata aggravata dalla condanna all’ergastolo ostativo che prevede la carcerazione a vita senza possibilità di riduzione della pena.
Provvedimenti draconiani che hanno però ottenuto i risultati attesi. Oggi il potere mafioso appare decisamente ridimensionato rispetto a 30 anni fa.
La legislazione di emergenza è stata talmente efficacie che è stata “stabilizzata” nel nostro ordinamento e ne è stata proposta l’estensione anche ad altri reati come ad esempio la corruzione.
Ma l’applicazione di questi provvedimenti ha anche causato distorsioni ed effetti collaterali che meritano un’attenta riflessione politica ed etica e che sono stati oggetto di un interessante saggio di Alessandro Barbano dal titolo “L’inganno usi e soprusi dei professionisti del bene”.
Barbano parte da alcuni clamorosi casi di applicazioni dei provvedimenti di sequestro di aziende e beni di persone accusate di concorso esterno in associazione mafiosa e ne descrive l’iter amministrativo e processuale.
Il primo aspetto che viene sottolineato è che il reato concorso esterno in associazione mafiosa non esiste nella nostra legislazione ma è una combinazione di articoli costruiti dalla giurisprudenza: l’articolo 110 sul concorso nella commissione di un reato e l’articolo 416 bis sull’associazione di tipo mafioso.
Il secondo aspetto è che la cd. Legge La Torre prevedeva il sequestro dei beni dei mafiosi solo dopo la sentenza, mentre ora il provvedimento ha uno scopo preventivo ed è gestito dalla Procura Antimafia. In attesa di una sentenza le aziende ed i beni dei presunti fiancheggiatori vengono sequestrate ed affidate a commissari giudiziari nominati dal Procuratore Antimafia. La scelta del Commissario è una scelta insindacabile della Procura e per evitare abusi è stata successivamente posto un limite di massimo tre incarichi per professionista. Norma che è stata aggirata attraverso l’inserimento della gestione di più sequestri all’interno dello stesso incarico.
Ci sono stati casi dove l’assoluzione e l’estraneità dell’accusato dall’associazione mafiosa non ha portato alla restituzione del bene in quanto, a giudizio della Procura persistevano pericoli di collusione con la mafia.
Oltre il 95% delle aziende sequestrate sono andate fallite o sono state vendute a prezzi da saldo per evitare ulteriore depauperamento del patrimonio.
I beni coinvolti nelle misure di prevenzione antimafia a metà del 2022 risultavano essere 215.995!!!
Barbano cita anche casi clamorosi di errori di persona nella titolarità di aziende che non hanno impedito sequestri delle stesse aziende e, dopo pochi anni, il loro fallimento. Inoltre gli interessi economici in ballo hanno dato origine anche ad episodi di corruzione come quello del giudice Saguto che è stata radiata dalla magistratura.
Provvedimenti di questa gravità che possono essere applicati senza sentenze hanno ovviamente dato luogo a valutazioni sulla loro costituzionalità e fino ad ora hanno retto grazie alla situazione di eccezionalità derivante dall’emergenza mafiosa. Quando la sinistra ne ha chiesto l’estensione anche ai reati di corruzione qualche magistrato ha sollevato una semplice constatazione: se viene estesa ad altri reati non ha più la caratteristica dell’emergenza e di conseguenza rischia di essere dichiarata incostituzionale.
Ovviamente di responsabilità delle Procure nella gestione di provvedimenti di sequestri non se ne parla. In pratica questa figura giuridica del sequestro prima della sentenza mette nelle mani della Procura un potere praticamente illimitato verso i presunti collusi.
Per quanto riguarda la pena dell’ergastolo ostativo i dubbi di costituzionalità sono ancora maggiori.
Infatti, l’articolo 27 della costituzione, che prevede la pena non come vendetta ma come strumento che deve tendere alla rieducazione del condannato, si scontra con il principio del “fine pena mai”. Se dopo 30 anni una persona ha riconosciuto i propri errori, ha seguito un percorso rieducativo che lo ha reso una persona diversa, con la condanna all’ergastolo ostativo non potrà mai uscire. E’ come una condanna a morte, anzi sotto un certo profilo anche peggio.
E questo profilo si chiama 41 bis. Lascio a chi vorrà leggere il saggio capire cosa vuol dire essere sottoposti a questo speciale regime carcerario che riguarda attualmente più di 500 detenuti.
Ma di fronte a questa legislazione chi crede nei principi costituzionali non può non porsi alcune domande.
La certezza della pena stabilita da una sentenza, la rieducazione del condannato anche per i più efferati delitti sono principi che debbono fare parte del DNA di un democratico. Avere risolto in parte il problema dell’attacco mafioso allo stato non può giustificare la sospensione di questi principi. La storia è piena di tragedie giustificate dalle emergenze. Un grande paese democratico si differenzia da un paese autoritario perché sa come risolvere questi problemi senza rinunciare ai principi costituzionali.
Riflettere su questi argomenti poco conosciuti e che rischiano di essere poco popolari è in realtà un grande esercizio di democrazia che un vero riformista deve fare scevro da pregiudizi. Coloro che hanno criticato alcuni aspetti di questa legislazione sono stati additati come deboli nella risposta contro la mafia. Invece la riflessione che nasce dall’analisi di alcune storture che si sono verificate può migliorare e rendere costituzionalmente inattaccabile una legislazione che ha sicuramente svolto un ruolo importante nella lotta alla mafia.