Il riordino della biblioteca, iniziato da pochi giorni, di Paolo Babbini, storico esponente del PSI bolognese deceduto nel 2019, che fu vicesindaco di Zangheri dal 1970 al febbraio del 1977, consente di disporre di materiale inedito, in particolare dei suoi diari in cui annotava i fatti principali e formulava commenti ed analisi sulla situazione politica.
Il 29 luglio 1970 si insedia la nuova giunta, a seguito delle elezioni amministrative che avevano confermato la maggioranza al PCI ed al PSI, partito che usciva dal fallimento dell’unificazione con il PSDI. Sindaco Renato Zangheri, vicesindaco Paolo Babbini che così annota:
“29 luglio 1970 Fine della gestione Fanti. Costituzione della Giunta Zangheri”.
Fanti si era posto il problema di modificare la gestione del precedente sindaco, Giuseppe Dozza. La gestione Dozza era stata una gestione che, da un lato aveva portato il comune ad interessarsi dei problemi locali senza cioè assegnargli altre funzioni che non fossero quelli della soluzione dei problemi circoscritti all’ambito locale, dall’altro il Comune era uno strumento diretto ed immediato della politica del PCI (aumento di potere, Bologna ed Emilia campo base per partire alla conquista dello Stato), e solo in questo senso svolgeva una funzione politica nazionale, come componente della politica nazionale del PCI.
Con Fanti è invece il Comune in quanto tale che si propone una funzione nazionale e, a volte, internazionale. La subordinazione al PCI è, per così dire, di secondo grado. La città svolge una sua politica, egemonizzata dal PCI bolognese e quindi dal PCI.
Da qui il tentativo di trovare sempre l’unità con le altre forze politiche del consiglio (discorso assembleare, unità con tutti non solo con i socialisti) per dimostrare l’unità della città (vedi Bilancio 1967 programma della città). Il tentativo ha varie motivazioni: diversità dalla linea politica nazionale del PCI rispetto al periodo Dozza; divergenze interne al PCI (incontro con i cattolici o alleanza con i socialisti) e quindi tentativo di aiutare una linea, la prima; fare assumere al PCI emiliano una funzione nazionale, cosa mai riuscita (nel gruppo dirigente nazionale gli emiliani hanno avuto ‘peso zero’, avendo invece come forza un peso notevolissimo).
La nuova giunta si costituisce su basi diverse. Il discorso di Zangheri concorda, nel contingente, con l’impostazione del PSI: maggiore connotazione di classe dell’Amministrazione, maggiore caratterizzazione politica delle varie forze, discorso di maggioranza e non assembleare, quindi maggiore chiarezza con le minoranze. È una linea diversa da quella dell’incontro DC-PCI sulla testa dei socialisti portata avanti da Fanti.
Maggiore importanza del rapporto Giunta-Quartieri e Giunta-Società che non Giunta-Consiglio.
Il limite del discorso di Zangheri è quello di limitare il ruolo dell’ente locale a compiti più ristretti (servizi sociali) mentre per i problemi dello sviluppo in pratica l’ente locale deve essere uno degli elementi di punta delle lotte rivendicative nei confronti dello Stato.”
La nuova giunta nasce quindi sotto auspici favorevoli, sostenuta anche da un quadro nazionale che sembra favorire migliori rapporti tra i due partiti della sinistra. Babbini registra, difatti, che si prospetta un’alleanza tra PCI, PSI e PSIUP anche a livello regionale e, soprattutto, che per la prima volta dal 1947, il PCI ha influito in maniera non trascurabile sulla formazione del Governo nazionale ponendosi problemi da forza di governo e che il Comitato Centrale del PCI, riunitosi il 24 giugno per commentare l’esito delle elezioni ammnistrative, ha approvato la relazione di Agostino Novella che propone l’unità delle forze socialiste e democratiche per le riforme e di far cadere la pregiudiziale anticomunista. Il 6 luglio cade invece il Governo Rumor, per evitare lo sciopero generale proclamato dalle organizzazioni sindacali per il giorno successivo. Babbini vi legge la conferma della fine del centro-sinistra come alleanza politica autosufficiente, capace di operare la trasformazione democratica della società italiana, trasformazione che, per essere portata avanti, necessita di altri apporti determinanti. La crisi del governo rappresenta, invece, l’inizio di una fase di riflusso che potrebbe spostare gli equilibri a destra, a cui andrebbe contrapposto il rilancio della politica delle riforme “possibilmente con l’appoggio del PCI”, appoggio che tuttavia vede come problematico. L’azione degli enti locali potrebbe, in parte, supplire, sviluppando economie esterne (casa, scuola, servizi), allargando gli spazi di partecipazione, fino a forme di autogestione, inventando modalità per incidere sull’economia.
La costituzione della nuova giunta gli appare, quindi, come la conferma della linea politica che aveva sostenuto fin da una drammatica seduta del Consiglio comunale di Bologna svoltosi il 20 dicembre 1966, in cui l’astensione dei socialisti unificati (allora fuori dalla Giunta) fu decisiva per impedire le dimissioni del governo della città richieste dalla DC. In quell’occasione, Babbini, capogruppo del PSU, affermava, come riporta Egidio Sterpa (L’astensione dei socialisti salva la giunta comunista di Bologna, Il Corriere della sera, 21 dicembre 1966), che a livello nazionale i socialisti vogliono “impedire l’egemonia moderata nello Stato e l’egemonia comunista nella classe lavoratrice” per poi aggiungere: “Vi è una frontiera precisa tra noi e il PCI per quanto riguarda i grandi principi di fondo ma non vogliamo il filo spinato e le barricate [….] la maggioranza di governo col PCI potrebbe esistere domani”. Babbini sviluppa in quella occasione una interessante e coraggiosa riflessione circa l’opportunità di congelare il dibattito sulla collocazione internazionale dei due partiti, per lavorare insieme per il bene della città e, aggiunge, del Paese. Rimanendo al contesto locale questa posizione stava ad indicare che i socialisti vogliono “fare le cose discutendone nel merito” e condizionando il loro appoggio.
Babbini, autonomista e poi leader della componente giolittiana, sosteneva difatti una politica di confronto/alleanza con il PCI sul piano locale, finalizzata anche a far affermare una cultura riformista nella ‘federazione comunista con più iscritti in Europa dopo quella di Mosca’, in modo che a livello nazionale maturasse la possibilità di una alternativa fondata sulle scelte concrete da compiere e non su preconcetti schemi ideologici. A favore della prima opzione operava la evoluzione sociale ed economica che, naturalmente, andava ad affievolire l’appartenenza ideologica. Il ruolo politico del governo locale, “il fare le cose discutendone nel merito”, era pertanto di accelerare questo processo. In realtà le giunte precedenti, Dozza-Borghese e Fanti-Crocioni, avevano dimostrato che il vincolo ideologico non precludeva l’azione riformista, ma impediva, semmai, all’azione riformista di diventare parte della strategia nazionale del PCI, ovviamente anche allora incentrata sul ruolo di opposizione. Come dirà e, soprattutto, come farà, il PSI ha, secondo Babbini, due opzioni: o essere parte di uno schieramento di sinistra senza l’egemonia di nessuna forza politica o essere un soggetto politico autonomo nella sinistra. I suoi avversari erano a destra, in chi teorizzava l’immodificabilità del PCI.
In effetti, la giunta Zangheri-Babbini non ebbe una navigazione particolarmente travagliata, anche se non mancarono momenti difficili e scontri interni alla maggioranza ed in Consiglio comunale, riportati nel diario che Babbini teneva. La collaborazione consentì il completamento delle grandi opere avviate negli anni precedenti, grandi opere che hanno reso moderna la città, e di porre l’ente locale quale interlocutore complessivo dei soggetti economici nel momento in cui si veniva affermando il localismo economico delle piccole imprese e dei distretti industriali. Si potenziarono inoltre le strutture sociali per dare risposte a quelle domande affermatisi con il crescere dello sviluppo e dei cambiamenti in essere (Per un approfondimento si veda P. FURLAN, La politica della programmazione. Paolo Babbini vicesindaco e assessore (1970 – 1977), in M. GORI, La politica come governo della convivenza. L’inguaribile riformismo di Paolo Babbini, Il Mulino, Bologna, 2024). Una bella stagione di riforme per la città, indubbiamente aiutata anche da una sensibilità culturale e politica con molte affinità e punti di contatto che favorì la comprensione, il rispetto e la stima reciproca e che attraversò anche fasi più aspre, che non tardarono ad arrivare.
Babbini condivideva un concetto espresso da Zangheri: la città non è un agglomerato di case, è una storia, è un’idea. La storia è quella della sua gente, delle lotte fatte contro le condizioni di arretratezza (l’analfabetismo, la povertà…) e per la libertà, la giustizia, il lavoro. Una storia che ha prodotto una società più coesa che in altre realtà e con tratti di peculiarità. Zangheri stesso li aveva evidenziati nel suo mestiere di storico, quando indicava che nel movimento operaio e contadino emiliano non c’era solo il lavoro ma “il lavoro fatto bene”, da cui discendeva un’etica della responsabilità e meritocratica che andava al di là del dato politico e di classe ed un rifiuto, anch’esso morale, dell’assistenzialismo e dello statalismo. Questi valori connotavano anche e soprattutto l’azione collettiva, che non si esprimeva come rivolta o come ribellione ma, senza ripudiare l’obiettivo rivoluzionario, si poneva sul terreno della legalità, che costruiva gradualmente i propri strumenti di espressione di solidarietà indirizzati ad obiettivi di sviluppo, ma anche palestre di formazione di una classe dirigente, e che, come prima vittoria politica, conquistò il Comune, che venne sentito come l’istituzione che li rappresentava, a cui potevano rivolgersi con fiducia. Da qui il rispetto per le Istituzioni e la dimensione dal basso che aveva la partecipazione politica nel movimento socialista di inizio secolo. Entrambi, Zangheri e Babbini, si sentivano figli di quella storia, dei suoi successi e dei suoi errori, e ne coglievano – e, mi azzardo a dire per come ne hanno scritto, ne amavano – l’eredità nei tratti originali e nella psicologia collettiva che ancora caratterizzavano i comportamenti sociali e politici della gens aemiliana. Governare il comune voleva quindi dire utilizzare tutti i margini riformistici che il sistema economico ed istituzionale consentiva per sfruttarne a pieno le potenzialità e realizzare quanto di “socialismo possibile” si poteva fare. Ciò richiedeva di esercitare il potere in modo non “alternativo” al sistema, ma di spostarne la focalizzazione sui soggetti più meritevoli. L’azione amministrativa doveva, quindi, essere parte di un progetto di trasformazione per accompagnare e sostenere quel processo di “socializzazione del potere” – di cui la costituzione dei quartieri era un primo anche se fondamentale momento – be l’azione politica doveva proporsi di valorizzare i corpi intermedi e il pluralismo delle e nelle istituzioni, dare ascolto alle voci critiche, rispettare le diverse tendenze politiche. La programmazione, assunta come metodo di governo della città, tra i suoi obiettivi aveva l’ampliamento degli spazi di libertà, compresi quelli dalle strutture burocratiche comunali. È una impostazione questa che risente delle suggestioni del pensiero di Antonio Giolitti, allora autorevole Ministro della Programmazione economica.
Fin qui l’alleanza. Il duello vero e proprio attende il 1976 per presentarsi. La causa è tutta politica, non incomprensioni o rivalità personali, e risiede nell’analisi che Babbini fa del risultato elettorale del PSI e del PCI alle elezioni amministrative del 1975 a Bologna ed in Emilia-Romagna e, ovviamente, anche a livello nazionale. Il PSI, pur nel risultato soddisfacente a Bologna ed in Emilia-Romagna, evidenzia la mancanza di un disegno politico nazionale, al contrario del PCI che, registrando una imponente crescita grazie alla conquista di voti aggiuntivi al suo elettorato tradizionale, è nelle condizioni e nella responsabilità di proporre un progetto politico di carattere egemonico. Babbini è convinto che per il PSI locale e nazionale sia necessaria una svolta, che questa svolta risieda nel dare credibilità ad una autonoma proposta politica socialista per il Paese e si candida, scegliendo il partito ed abbandonando l’amministrazione della città, ad esserne uno dei protagonisti. Le successive elezioni politiche del 20 giugno 1976, assegnando al PCI il 34,4% dei consensi, confermarono e rafforzarono quella convinzione.
Le ostilità hanno una data di inizio: l’8 giugno 1976 un articolo di Giampaolo Pansa sul Corriere della sera dal titolo emblematico “Il difficile mestiere di convivere con il PCI”, dopo le considerazioni di Riccardo Lombardi e di Giuliano Amato, riporta, presentato Paolo Babbini “come uno che dei rapporti con il PCI se ne intende”, questa sua dichiarazione: “il PSI è accettato e anche esaltato ma solo se svolge una funzione subalterna e di fiancheggiamento…..qualche tempo fa Lelio Lagorio, presidente socialista della Toscana, mi aveva offerto questo schema dell’indice di gradimento del PSI da parte dei comunisti: quando siamo al 10% ci coccolano, al 15% ci tollerano, se saliamo al 20% ci detestano”. Il 27 settembre l’Avanti! pubblica un articolo di Babbini dal titolo “Emilia rosa Emilia rossa”. E’ l’inizio della campagna congressuale che lo porterà alla carica di segretario provinciale e Babbini indica la linea: il rapporto con il PCI deve “passare sempre più da un rapporto di condizionamento, pur utile per la comunità, …ad un rapporto politico paritario nella gestione del sistema delle autonomie” anche per contrastare “le tentazioni egemoniche e totalizzanti” ed evitare che la “massima espansione elettorale, il suo 51% a livello emiliano” coincida “con il massimo di chiusura politica”. La risposta del PCI è un gelido silenzio. Il segretario provinciale del PCI non interviene nel dibattito che tradizionalmente segue alla pubblicazione di quelle che sono di fatto le tesi congressuali e che ospita invece le opinioni di tutti i segretari provinciali dei partiti dell’arco costituzionale. Da Zangheri nessun commento ufficiale, in privato esprime tutto il suo disappunto.
Tra le date dei due articoli citati, si è svolto il Comitato Centrale che ha eletto Bettino Craxi segretario. Babbini non è affatto entusiasta di questa scelta. Le ragioni sono due: Babbini conosce poco Craxi per assenza di rapporti diretti e teme che il suo forte autonomismo porti ad una rottura con il PCI. Entrambi questi timori svaniscono in poco tempo: la frequentazione diretta lo convince delle grandi capacità politiche di Craxi (scriverà successivamente che le tre persone più intelligenti che ha conosciuto sono stati Craxi, Cuccia e Andreatta) e della attenzione al dibattito politico in Emilia-Romagna, dove verrà spesso anche per ribadire, come dirà nel 1991 in una grande manifestazione al Palasport di Bologna, “con i comunisti dobbiamo mantenere, proprio qui in Emilia-Romagna e a Bologna, aperto un ponte percorribile per i futuri sviluppi della politica italiana”
Il rapporto tra Babbini e Craxi si consolida e trova un terreno specifico: il confronto tra Lombardia ed Emilia-Romagna. Babbini sostiene la tesi delle “due capitali del riformismo”, Milano e Bologna – già oggetto di un suo scritto del 1972 – ma non riesce a convincere Craxi. Entrambi concordano che, al contrario delle più conosciute canzoni italiane di musica leggera che cantano le emozioni, quelle lombarde ed emiliane raccontano delle storie. Al di là dei singoli esempi raccontati, il tema vero di cui parlano è quello delle gens, dei costumi, dei valori e delle credenze consolidate, delle analogie e delle differenze. L’attenzione alla psicologia collettiva dell’elettorato è un loro terreno di incontro.
Poi arriva l’11 marzo del ’77. Babbini è segretario della federazione di Bologna da un mese. Lo studente Franceso Lo Russo viene ucciso in uno scontro con la polizia. La città conosce giorni di grande tensione: cingolati che pattugliano la città, azioni di guerriglia urbane, vetrine in frantumi. E’ una “prima volta” e la città è sbigottita. Babbini coglie nel movimento del ’77, antiriformista e velleitariamente rivoluzionario, la fine di un periodo, quello del “facile trionfalismo a sinistra”, e la necessità di costruire una linea politica nuova e diversa da quella seguita negli ultimi 20 anni. Colloca il PSI bolognese su una linea di critica alla gestione politica delle forze dell’ordine ed ai gravi atti di teppismo commessi dal movimento degli studenti ma, al contempo, non mette sullo stesso piano la morte di un ragazzo e le vetrine rotte del centro storico. E ribadisce con forza che le critiche che il movimento degli studenti urla contro i partiti di sinistra, compreso il PSI, “non sono condizioni sufficienti per dichiararlo eversivo di destra”. Il PCI si pone su una linea opposta: è un deliberato attacco alla politica del compromesso storico di cui Bologna è la vetrina. Lo scontro tra PSI e PCI è molto forte. Un piccolo episodio inedito lo conferma. Luigi Colombari, assessore alla cultura, partecipa ai funerali di Franceso Lo Russo e rientra a Palazzo d’Accursio dove è in corso la Giunta comunale. A tali funerali era presente anche la Federazione Giovanile Socialista di Bologna con le sue bandiere. Quando entra nella sala di giunta, nessuno lo saluta e gli rivolge la parola. Terminata la riunione, Gabriele Gherardi, che aveva sostituito Babbini nell’incarico di vicesindaco, gli dice che Zangheri, aprendo la seduta, aveva espressamente vietato di salutare o di rivolgersi a Colombari. Che scrisse successivamente, il 12 agosto 1977, un articolo sull’Avanti! dal titolo “Non ampliare il solco tra le due società” e fu oggetto di ulteriori reprimende.
Il duello a sinistra si accentua a livello nazionale. Le sue ripercussioni a livello locale furono forti ma non contraddittorie con la politica dell’autonomia socialista.
Nell’ottobre del 1978, a Bologna, PSI provinciale e regionale organizzano il convegno su “Progetto socialista e modello emiliano”; è da un lato la dichiarazione esplicita che il PSI, tutto il PSI dell’Emilia-Romagna, rigetta l’egemonia comunista per una sempre più convinta autonomia di partito e, dall’altro, una iniezione di fiducia nella forza autonoma del partito. L’immagine della regione che esce dal convegno è un’Emilia-Romagna con tante facce, una forte propensione alla crescita, forme differenziate di integrazione sociale, un esempio di “socialdemocrazia reale” che tuttavia rischia di vedere compromesse le sue potenzialità e legittime aspirazioni da modalità di gestione del conflitto sociale e gestione delle amministrazioni locali tendenti ad ingessare la società. La critica è forte e l’obiettivo politico che viene indicato costituisce una sfida: portare il patrimonio di esperienze della sinistra emiliana “che ha ben governato una delle regioni più sviluppate d’Europa” a una sinistra di governo in grado di candidarsi alla direzione politica del Paese.
Il guanto non viene raccolto. Renzo Imbeni, allora segretario della federazione bolognese del PCI, carica che lascerà per fare il sindaco di Bologna, pubblica sull’Avanti! del 26 Ottobre un duro articolo per dire che il convegno è stato improntato al catastrofismo ed alla demagogia, immiserendo l’esperienza di governo emiliano a qualche formuletta e qualche slogan, svuotandola dei suoi reali significati. Due anni dopo l’Istituto Gramsci dell’Emilia-Romagna organizzò un convegno dal titolo “L’Emilia-Romagna tra crisi e trasformazione”. Nel convegno vi fu anche chi invitò ad uscire dagli schemi del passato, ad essere laici, ad ascoltare le voci di critica legittima, a superare le letture troppo ireniche ed a guardare alle esperienze più avanzate delle correnti socialiste e socialdemocratiche dell’occidente europeo. Tra queste voci anche quella autorevole di Renato Zangheri.
Una considerazione a margine. Leggiamo, io per primo, le vicende di quegli anni nelle parole e negli atti dei protagonisti. Ma il popolo socialista ed il popolo comunista sono attori altrettanto importanti, specie in Emilia ed a Bologna. Nel popolo socialista si stava radicando la convinzione, razionale e sentimentale insieme, di aver ragione, di aver vinto sul piano delle idee e della storia e che, pertanto, i compagni comunisti non potevano considerarsi l’avanguardia, i portatori di una diversità positiva. Potevano e dovevano invece riconoscere la vittoria socialista. I comunisti credevano che la storia potesse anche dar loro torto ma la forza del partito, la sua organizzazione, il potere di cui disponeva assegnava a loro la supremazia. Con in più la legittima convinzione che dopo tanti anni di opposizione toccasse a loro governare. Il duello a sinistra era radicato nel popolo socialista come nel popolo comunista. Era compito dei gruppi dirigenti trovare una strada, nel rispetto e nella legittimazione dell’avversario. Gli sconfitti del duello a sinistra sono due: l’intero gruppo dirigente socialista dell’Emilia-Romagna e l’intero gruppo migliorista del Partito Comunista dell’Emilia-Romagna. A vincere è stato “l’impossibile riformismo del PCI” (copyright Fanti e Ferri).